Pensieri di Qohèlet, l’Ecclesiaste

Pensieri di Qohèlet sulla vita dell’uomoqoelet

Qohèlet (rimanda al vocabolo ebraico qahal “assemblea”, in greco ekklesia, da cui il latino Ecclesiaste) è il titolo di un poemetto, datato dopo l’esilio di Babilonia, nel III secolo a. C. e scritto, molto probabilmente, da un sapiente ebreo votato allo studio e all’insegnamento in un’assemblea sapienziale. La sua parola non sempre dice, ma piuttosto allude, si contraddice, rimanda a qualcosa da cercare tra e sopra le righe, rendendo il suo scritto motivo di studio e di interpretazione  da parte di molti.
“Vanità delle vanità, tutto è vanità. Ho visto tutte le cose che si fanno sotto il sole ed ecco tutto è vanità e un inseguire di vento” (Qo 1,14)
Qohèlet ci parla della fragilità dell’uomo, dell’inconsistenza di ogni realtà umana. San Girolamo, nella Vulgata, parla di “vanitas vanitatum” ossia di “vanità delle vanità”, di “futilità”, “assurdità”, “non-senso”, “vuoto”. Nella Bibbia ebraica viene usato il termine /hevel/hebel/habel che dice ciò che non può essere afferrato, ciò che è e svanisce, quindi il rimando è alle immagini del vento, vapore, soffio, alito, immagini che evocano l’essere illusorio delle cose e di conseguenza la delusione dell’uomo.
La parola di Qohèlet è acre, provocatoria perché tutto è hebel: la vita umana ha una fugacità che la riduce a fumo, è hebel, tutto ciò che accade sotto il sole è hebel: il piacere è hebel (2,1), la sapienza è hebel (2,15), il denaro è hebel (5,9), la giustizia e l’ingiustizia sono hebel (8, 10.14)… Hebel è il vocabolo che percorre tutti i capitoli del libro per esprimere la visione della vita e dell’essere dell’autore: Qohèlet disincantato e pessimista perché gli sfugge l’immagine complessiva dell’opera di Dio e considera vano qualsiasi tentativo di decifrarla, “maestro del sospetto” (G. Ravasi) per le domande scomode che egli si pone, “un po’ rassegnato ed impotente testimone della crisi dei valori sapienziali tradizionali” (G. R.).

Il tempo
La visione della vita di Qohelet è rafforzata da una pagina di straordinaria potenza. Quattordici coppie di opposti, che costituiscono un elenco di momenti del vivere e dell’agire umano, dipingono la schiavitù e l’impotenza dell’uomo di fronte al tempo.
“Al tutto una sua stagione (zemàn) e un tempo (‘et) a tutte le situazioni sotto il cielo: il tempo di nascere e il tempo di morire, il tempo di piantare e di sradicare …” (3,1-2)
“Zemàn” è il tempo di durata, la stagione, l’epoca; esprime l’aspetto più cronologico del tempo (Chronos, il Tempo divoratore, nella versione greca). “Et” è l’occasione favorevole, il tempo opportuno, il tempo decisivo da cogliere (in greco Kairos). L’altro vocabolo   presente nel testo, “olàm”, indica il tempo dell’eterno, il tempo supremo di Dio dalla durata incontrollabile che ingloba e supera quello dei tempi sperimentabili. Dopo il succedersi dei tempi che esprimono le azioni concrete della vita dell’uomo subentra una riflessione più specifica (3,9-15) nella quale Qohèlet espone la sua tesi sulla circolarità e ripetibilità del tempo, normalmente rappresentato da una ruota il cui girare incessante simboleggia il ripetersi degli avvenimenti: “Ciò che è stato sarà e ciò che si è fatto si rifarà” ( 1,9).
Il flusso dei giorni è inalterabile e incomprensibile: l’uomo pur avendo nel cuore il senso dell’eterno, dell’olàm, non riesce ad afferrarne l’inizio e la fine e quindi l’intero arco del tempo e del creato. L’eterno è distante e irraggiungibile. All’uomo non resta che cogliere l’unico bene possibile: lo stare allegri, il bere e il godere del frutto delle proprie fatiche.
Ed ora una domanda: nonostante le provocazioni che questo testo ci offre, perché possiamo dire che è parola di Dio? Nella Bibbia la parola divina s’incarna e si esprime all’interno della storia e dei limiti umani, nella sofferenza, povertà, domanda e nell’interrogativo dell’uomo, perciò, possono trovarvi posto anche la parola “scandalosa” di Qohèlet, il suo disincanto ed il suo dubbio.  È una parola che alcuni  interpretano come l’attesa di un mondo che verrà, l’attesa di un evento portatore di senso, quasi un’invocazione messianica, “come un indice puntato verso la pienezza di Cristo” (G. Ravasi) in cui finalmente i tanti interrogativi troveranno “una risposta conclusiva e non evasiva”.

Qohèlet e il nostro tempo.
Nel testo di Qohèlet vi troviamo le assurdità, le miserie, il vuoto individuale, il malessere nascosto che infettano anche questa epoca storica, questo tempo di incertezze e di domande. È un “momento” di crisi morale, ma anche economica e sociale: per molti sembra prevalere  l’assurdo, l’apparenza, il desiderio di denaro e di potere, lo sfruttamento dei più deboli, per altri la mancanza di certezze, anche economiche, di speranza, di futuro e il venir meno di un’identità sociale accettabile e della dignità che è della persona umana.
“Ma ho anche notato che sotto il sole al posto del diritto c’è l’iniquità e al posto della giustizia c’è l’iniquità”. (3,16). Qohèlet è in grado di interrogare nel profondo lo spirito dell’uomo, le sue ansie, le paure, la sua particolare visione dell’esistenza oggi sigillata dalla venuta di Cristo, l’evento che “inserito in una concezione lineare e non ciclica della temporalità ha segnato irrevocabilmente il tempo a partire da qualcosa che è fuori dal tempo” (C. M. Martini).  Il mito dell’eterno ritorno dell’uguale, caro a Qohèlet, lascia il posto alla concezione del tempo che, essendo dono di Dio, il cristiano amministra sapendo che è il luogo precario e fragile in cui ne va della propria eternità. Capita tuttavia, e questo è il momento, per accidia o indifferenza, per la frenesia di agire, per l’istinto di possesso o per la sete di potere, di percorrere la strada della vita senza aver saputo cogliere l’occasione favorevole per riflettere sul significato del viaggio che ci è dato fare, dimenticando che il nostro oggi e ogni istante sono pieni di valore, che ci sarà una fine in cui conosceremo se abbiamo agito bene o male e che pertanto, nella sua storia umana, ciascuno “gioca” la sua personale partita per l’eternità.
Ci piace perciò concludere con dei versi di p. David Maria Turoldo:
      E il già detto è ancora
      da ridire, Qohelet:
      mai la stessa onda si riversa
      nel mare e mai
      la stessa luce si alza sulla rosa:
      né giunge l’alba
      che tu non sia
      già altro!

Olga Pizzutti
per il Gruppo Missionario

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